Corona: alpinista e scrittore racconta di una valle dove le montagne si muovono e medesima sorte tocca anche ai sentieri, agli alberi ed ai fiumi, parla di un luogo dove l’erba ha parole per te e dove baite, uomini, attrezzi ed armi o piccoli tesori scompaiono improvvisamente per essere ritrovati casualmente moltissimi anni dopo o rimanere dimenticati per sempre. Sembra un libro scritto da un visionario eccessivo, ma è proprio così ? Forse Mauro ha visitato l’Asinina e poi ha dato vita al suo romanzo, ne sono certo, perché in questa valle accadono proprio cose così e questo non puoi capirlo se a tua volta non sei un “cercatore”. Qui il mistero ti circonda e tutto cambia continuamente: sono l’abbandono e l’irruente forza della natura che giocano strani scherzi a colui che non conosce questi territori.
L’Asinina è descritta sul pregevole volume: Retenatura 2000, pubblicato dalla provincia di Bergamo nel 2006. Questa valle tuttavia è qualcosa di molto diverso dalla colta descrizione che possiamo trovare in quelle pagine. Il territorio in questione, nonostante la sua inaccessibilità, offre percorsi e vissuti inseriti nel vivere quotidiano di quegli uomini che hanno saputo trarre risorse dove ci si avvicinava più alla sopravvivenza che al viver normale. I numeri non si addicono ad una valle attraversata da sentieri laddove sentieri sembrerebbero non esistere, insediata con baite e ricoveri laddove non si penserebbe mai, utilizzata nella risorsa boschiva laddove sembrerebbe impossibile portare un’accetta.
Dobbiamo allontanarci dal desiderio di definire, inquadrare, chiarire, ma calarci nell’anima di questa valle percorsa, sudata, sofferta, rubata all’impossibile e frazionata in piccolissime aree: quelle delle carbonaie o dei forni della calce disseminati in reconditi ed impossibili luoghi. Pensiamo ai giorni ed anche alle notti di quegli uomini a loro agio in qualsiasi spaccatura della roccia, immaginiamoci i colpi sordi sui tronchi, le fumate azzurrine dei “poiat” o delle “calchere”, ricordiamoci delle morti silenziose e lontane da tutti e da tutto o dei momenti di gioia per il ritorno a valle. Ovviamente la “natura” è presente nelle sue forti peculiarità, ma i metri quadrati o gli ettari o le specie di erbe, di alberi o animali pur nella loro valenza, non rendono giustizia a quel sapere popolare tramandato a lungo ed ormai perso e all’amaro che sale in bocca quando si scoprono tracce di vita passata, esigui segnali che un tempo erano la vita stessa di questi luoghi, ognuno con il proprio nome ormai perso.
1995 – Franco Radici pubblica: “val Taleggio” a cura dell’Assessorato al turismo della Provincia di Bergamo, la cartina che accompagna l’agile volumetto riporta dieci itinerari e Franco me ne regala l’originale, praticamente un affresco di quelli ai quali solo lui sapeva dare vita. Poco dopo compare anche: “Valle Taleggio fra storia e natura”, a cura della Fondazione Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. La mappa allegata riporta addirittura sessantotto itinerari: la cosa mi appare piuttosto ottimistica e questo scatena la mia curiosità. Inoltre alcuni “cabrei” del catasto austriaco riportano la presenza di baite sulla sinistra orografica della valle: quelle testimonianze danno inizio ad una lunga avventura che affrancherà nella mia mente ricordi assolutamente e totalmente indelebili.
2003 – Autunno – Il masso bianco – Le mappe austriache saranno davvero corrette? Oggi lo scopriremo. Poche centinaia di metri dal ponte del Becco noto un “poiat” ed una “calchera”: incredibile, solitamente questi manufatti sono molto distanti fra di loro, altrimenti non vi sarebbe abbastanza legna per alimentarli entrambi (questa testimonianza ora è scomparsa). Raggiungo la baita che conosciamo tutti (I), quella con un grande telo verde disteso sul tetto, la oltrepasso ed arrivo ad un casello dell’acqua, un traccia di sentiero lo oltrepassa salendo a sinistra in diagonale. Nella radura sovrastante vi è un’altra baita (II), è quasi per intero crollata ma il portale regge ancora, noto un masso bianco, è una specie di pietra “madre” che quasi tutte queste costruzioni hanno incastonato nella muratura. Di certo non viene dal basso ed allora proseguo su diritto. Vicino al bosco compare un terzo casolare (III) , tetto crollato ma portale ancora integro (attualmente entrambi i portali non esistono più), proseguo ancora su diritto oltrepassando la bella mulattiera per Cantiglio. Il bosco ora è più fitto e scuro ma eccole, ai piedi di un enorme macigno vi sono due grosse “calchere”, invase da detriti e muschi: si riconoscono benissimo. Proseguo verso sinistra lungo un’invisibile traccia, raggiungo una nuova radura con meli selvatici e alberi di noce: al centro vi è un caseggiato (IV), riporta ancora il numero civico 54, è il Roncal, allora ancora integro e suppongo abitato sino al 1990, stando ad un calendario della Croce Rossa appeso ad una parete. In questa costruzione, ormai ridotta a rudere e questo stringe il cuore, abitava Vitalino Vitali, comandante partigiano.
La radura è chiusa da una cortina di alberi, la raggiungo, fra i noccioli vi è un pertugio, ecco un altro indizio, passo ed entro in un bosco delimitato a sua volta da un torrentello: nel greto vi sono altre pietre bianche e sul ciglio noto è un grosso masso che mi lascia una sensazione strana. Salgo ancora ed ecco ancora un rudere con finestre a feritoia come se si trattasse di un piccolo castello (V). Da questo luogo, ora una evidente mulattiera taglia verso sinistra, la seguo mentre lascio sulla destra un esile sentiero che comunque a sua volta, mi incuriosisce. Poco dopo compare una costruzione della quale rimane la sola struttura del camino: è la Ria Grasa (VI). La mulattiera continua pianeggiante sulla sinistra fiancheggiata da grossi faggi segnati con bolli gialli. L’istinto tuttavia mi spinge nuovamente su in diagonale sempre a sinistra: trovo un’ altro piccolo forno per la calce. Proseguo e supero un torrente, non vi è sentiero ma il pendio è percorribile ed ecco un nuovo ricovero in pietra (VII). Salgo ancora, compare una traccia, continuo, dovrei essere all’incirca sotto le rupi della Corna Picciola, avancorpo del Cancervo. Lascio qualche ometto in pietra, non si sa mai e con una grande sorpresa, poco distante dall’impennarsi della parete, compare una carbonaia enorme: mai visto nulla del genere, il cuore mi batte forte, sono emozionato: le mappe del catasto austriaco erano comunque esatte!
Dal 2004 al 2016: le armi, i partigiani, la grotta della peste ed i “non sentieri”.
Il ponte della Forcola, quello di Riolcc che conduce alla baita IV, quello detto della Val Fregia, posto poco dopo il mulino di Bragoleggia ed il guado alle sorgenti dell’Asinina che permette di raggiungere il Grialeggio, governano, si fa per dire, la “precaria viabilità” di questa valle. Ma da quel 2003 quanti sentieri “non sentieri” ho percorso?
Ve ne è uno parallelo a quello che dalla Pianca raggiunge Cantiglio (1), ma è più alto e transita sulle creste. Un sentiero “non sentiero” dalle sorgenti del torrente (2) punta verso il Baciamorti (una baita non più ritrovata e come sempre alcune carbonaie). Un altro “non sentiero” scende dal Baciamorti (3) e taglia ripidissimo sotto la linea elettrica, una cosa da corda doppia, trovi qualche bollo rosso, ancora carbonaie e buona fortuna se arrivi in fondo, ma quando hai perso ogni speranza raggiungi di nuovo le sorgenti sfiorando le baite dei Fienili di Val Asinina (XIII).
Altro sentiero “non sentiero” è quello che dal fondo del vallone di Quindicina, al posto di scendere a sinistra verso il guado del Grialeggio (4) ti porta, tagliando in diagonale sulla destra, verso Retaggio (5): è una lama di coltello sulla quale cammini in equilibrio, è posto al di sopra di pendii ripidissimi che non lascerebbero scampo e un’altra “lama” ancora è quella, del tutto impraticabile, che congiunge il ponte di Riolcc (6) con quello della Forcola, sempre in sponda destra.
Altri percorsi “non percorsi” te li crei cercando di salire dal fondo valle verso Capo Foppa, solo perché da sopra arriva un suono di campanacci, tagliando in verticale per boschi e forre ti metti in trappola da solo, con il problema di dover superare una grossa frane da risalire con il fiato sospeso sino a quando compare in cerbiatto spaurito ed una nuova traccia (7) ti porta ad un piccolo roccolo.
Altro itinerario, credo molto importante, ma ormai perso è quello che dalla baita N° V, taglia in diagonale verso destra rasentando i dirupi della corna dei Porci, (8) su un sentiero “non sentiero” puoi procedere per circa un’oretta, poi ti devi fermare: un vallone eccessivamente impervio ti sbarra definitivamente la strada. Nel 2011 durante un’uscita della Scuola Orobica di Alpinismo Giovanile, fra la baita IV e V, sotto un masso, quello che mi aveva incuriosito anni prima, trovammo delle armi. Tale evento unitamente al fatto che questo percorso punta diritto verso la forcella di Cantiglio mi fa intuire che i partigiani transitavano e dovevano rifugiarsi in questi luoghi, cosa poi confermata dai locali: i partigiani stessi non sarebbero di certo scesi più in basso con il rischio di farsi catturare.
Ma di “non sentieri” ve ne sono ancora, uno dal ponte di Riolcc, in sponda sinistra, sale in verticale sotto la Corna Piccola (9) e riporta alla grande carbonaia pocanzi descritta: quando vi capito per la seconda volta, scopro una data ed alcune iniziali incise su di un grosso faggio: nel 56, per scommessa, qui vennero trasformati in carbone 160 quintali di legna: esattamente il doppio di quel che si faceva con un “Poiat” tradizionale. Dalla baita VI invece si diparte un altro “non sentiero”(10): tagliando in diagonale sulla sinistra provenendo dal Riolcc si prosegue per circa mezzoretta e poi si sale su diritto proprio sotto gli strapiombi della Corna dei Porci: a circa 1050 metri di quota si trova la “Grotta degli appestati”, mi ci aveva accompagnato Nino Vitali nel 2005 e da allora, pur avendo scandagliato quasi tutti i dirupi in sponda sinistra, non ero più riuscito a ritrovarla. Fortunatamente in settembre (2016), a Ca Corviglio, incontro per caso un’ altro Vitali, che di nome fa Ugo, con lui e Battista questa volta ritroviamo la grotta, anzi le grotte perché gli anfratti sono due, uno sovrapposto all’altro. Si tratta di un nido d’aquila sospeso nel vuoto. Ugo conferma che vi si rifugiavano i partigiani, ma mi lascia con un altro interrogativo: suo padre lo ha portato ad un’ altra grotta simile ma con la promessa di non rivelarne mai l’ubicazione, quindi se un enigma si chiede, subito un’altro si riapre.
In pratica i sentieri effettivamente ancora percorribili in questo valle sono praticamente solo un paio: uno conduce al mulino di Bragoleggia ed il secondo dal Grasso, taglia tutto il versante destro dell’Asinina e porta al guado per raggiungere il valico del Grialeggio, raggiunto nel 2014 con Battista: uno dei pochi che conosce ancora questo itinerario. Anche quest’ultimo percorso comunque, superata la grande frana e le baite di Giopparia, luogo di un efferato delitto avvenuto nel 44, ormai sta purtroppo scomparendo.
Le persone: ho incontrato Giovanni (nome di fantasia) in un luogo abbastanza singolare: un ospedale, quello di Ponte San Pietro. Entrambi eravamo ospiti della struttura, io per un problema serio ma risolvibile mentre lui doveva scegliere se non effettuare alcun intervento e porre termine in breve tempo alla sua esistenza o trasformarsi praticamente in un vegetale, ma sopravvivere. Ci presentammo solo per nome ed incominciammo a parlare ciascuno delle proprie esperienze: mi raccontò delle povertà, della fame, delle restrizioni subite, dei mille lavori. Uno dei sui compiti consisteva nel tener pulito i canali che portavano acqua alle condotte, nei pressi delle griglie, mi disse, si potevano trovare o le carcasse di incauti caprioli o i corpi di qualche anziano che non ne poteva più. Mentre stavamo per lasciarci, mi parlò anche della sua mucca alla quale aveva dato un nome del tutto particolare: “gentile”: per chiamare così quella bestia voleva dire possedere radici molto profonde ed avvinghiate tenacemente a questo territorio che nonostante le inimmaginabili difficoltà gli ha comunque permesso di metter su famiglia ed avere figli: non potrò mai dimenticare quella persona, che nella sua semplicità e nel suo dolore dimostrava ancora, nonostante tutto, amore per la sua terra.
Nino Vitali di Ca Corviglio: mi ha accompagnato diverse volte in Asinina, a distanza di vent’anni si ricordava esattamente l’ubicazione di ogni andito. Nel camminare mi raccontava i vari fatti di questa recondita valle, dandole vita e mostrandomi come in luoghi del tutto inaccessibili, carbonai e boscaioli lavoravano comunque. Un giorno abbiamo visitato una grotta in sponda sinistra dove venivano mandati gli appestati, quella volta mi disse: io qui non tornerò mai più, ma io non capii. Nell’ultimo dei nostri incontri, considerato il mio stupore nel guardare un oggetto che cercavo da sempre, me lo regalò: si trattava di una piccola incudine per battere la falce, un pezzo ormai introvabile. In autunno questa persona era “andata oltre”. Si era spenta velocemente rapita da un male subdolo ed incurabile; tuttavia con il suo lavoro aveva contribuito alla ristrutturazione della bella chiesetta del borgo e questo è un messaggio incredibile perché attraverso la passione, a volte, si può fare molto più che con il denaro.
Vitali Pietro detto Giana ha vissuto per anni nella contrada Morandi, posta poco sopra Piazzo. Conduceva la mandria al passo del Baciamorti, circa 200 capi, lo aiutava il suo cane Lampo ed aveva per casa un ombrello. Accudiva prima le bestie, poi il cane ed infine pensava a se stesso. Se pioveva, con una mano reggeva il parapioggia e con l’altra il mestolo della polenta.
Quella esistenza solitaria lo ha portato a tradurre i suoi pensieri e la propria saggezza in piccole sculture di legno o attrezzi ornamentali sui quali riportava alcuni brevi motti. Aveva inoltre riprodotto la sua cascina di Melegnano: la Maiochetta, all’interno di una baita adiacente: ascoltarlo era una lezione di vita. Al ritorno dalle escursioni lo andavo a trovare, mi offriva subito un buon bicchiere di marsala: chissà dove lo prendeva e mi raccontava le sue storie. Io gli compravo sempre qualche piccola scultura. Lavorava con un semplice coltellino. Del Giana mi rimangono una serie di cavallini, ognuno con il proprio basto ed il relativo conducente. Ogni basto portava alcuni attrezzi o prodotti legati alla sua vita: il cemento per la baita, il carbone, i formaggi, le canne dell’acqua per abbeverare le mucche e gli attrezzi per sopravvivere ed aveva scolpito anche il suo cane Lampo; ogni tanto ricompongo questo piccolo convoglio e penso alla non di certo facile vita di quell’uomo.
Cosa si potrebbe fare ancora – Battista di Pizzino, nel l 2013 (vedi il libro “ Valtaleggio e “Quaderni Brembani” N°12 anno 2014) mi avvisa che l’aspetto archeologico fa capolino anche da queste parti: era ora e come al solito i ritrovamenti sono stati del tutto casuali, si parla di età del bronzo; questo importante tassello mancava alla storia della valle, lo aspettavo ormai da tempo ma non avevo dubbi. A Battista, che ormai conosco da anni lascio il compito di concludere queste note, nella speranza che l’Asinina riprenda vita e non rimanga solo un fantasma di se stessa.
Nel corso dei secoli la Valle Taleggio, per le caratteristiche del suo paesaggio, la sua storia, le sue tradizioni, il suo patrimonio architettonico, la sua tradizione casearia, è stata definita “La Piccola Svizzera” e “La Magnifica Comunità”. Allo scopo di tutelare questo patrimonio materiale e immateriale, nel 2008, i comuni di Taleggio e Vedeseta danno vita al progetto: “Ecomuseo Val Taleggio”: civiltà del taleggio, dello strachitunt e delle baite tipiche. Con i fondi dei bandi Cariplo e della regione Lombardia, si sono realizzati importanti progetti: un B & B, per “gustare” una vacanza in una tipica baita della Val Taleggio; un centro documentazione; le porte eco museali: punti di accoglienza e informazione alle entrate della valle: tre installazioni multimediali interattive per apprendere e comprendere l’arte dei bergamini, dei casari e degli stagionatori.
Inoltre, per far conoscere in modo diretto il territorio e le sue tradizioni, sono state individuate e segnalate cinque “Vie tematiche”: la via del taleggio e dello strachitunt, quella delle architetture rurali, la via del paesaggio sacro e della storia, quella degli ecosistemi e la via degli alpeggiatori; con la possibilità di realizzare visite guidate per scuole e gruppi organizzati.
Cosa si potrebbe fare ancora? Penso ad un “sentiero della val Taleggio”: un giro completo, tutto in quota, con la possibilità di salire anche tutte le cime che si incontrano, compresi i Campelli ed il Resegone. In pratica è già esistente e quasi tutto in buone condizioni: si tratterebbe soprattutto di dargli ufficialmente un nome e di metterlo sotto il patrocinio CAI, completando e migliorando la segnaletica.