È il 1975, ho ventitre anni, un poco in ritardo per incominciare ad arrampicare. Ma questa attitudine era già dentro di me, si era manifestata mille volte senza che io me ne accorgessi. Il desiderio di muovermi, di scoprire, di affrontare itinerari nuovi anche se nessuno mi accompagnava, erano semplicemente la premessa a questo naturale sbocco: tale attività mi accompagnerà per tredici anni. Poi l’angosciate e martellante domanda: come hanno potuto smettere?, me lo chiedevo ogni volta, mentre guardavo gli anziani” del CAI, trovò automaticamente una risposta: il lavoro e la famiglia sono due binari con ferree regole così come del resto lo è la montagna stessa.
Tuttavia, idealmente, un alpinista appassionato, lo rimane tutta la vita e le sue azioni lo confermano in ogni momento ed in qualunque situazione esso si trovi.
La macchina è parcheggiata e già ho paura, i gesti sono un rito: scarponi, sacco,corda, materiale, ma cos’è questa paura? È più che il rispetto per una via impegnativa anche se considerata di palestra, è una cosa antica che cancellata dalle ore di studio: riaffiora: la natura nella forma più estrema (o quasi) ci attende e noi – da uomini moderni, cosa sia la natura ormai ce lo siamo scordato.
Parliamo di ragazze, come antidoto è sicuro.Sembra facile: « Domenica vado sulla Bonatti, vieni! » Nelle mie dita c’è qualche metro di palestra e un paio di salite fra il terzo e il quarto grado, ora siamo in gennaio,di tempo ne è passato, eppoi mi manca la mentalità. Io mi fido delle mani e lassù verso la fine del « traverso» bisognerà usare bene i piedi! Ho paura, perché allora mi affido ad una carda? Si sono tentate molte risposte, alcune scherzose, altre di effetto ed altre ancora, ognuna valida per ciascun soggetto, ma la mia di risposta dov’è?.
Siamo sullo zoccolo iniziale che ci porterà all’attacco, « come se si trattasse di una battaglia, penso. Le mani s’appigliano automaticamente, ecco una risposta, Maurizio trova due chiodi, Giovanni … probabilmente condivide la mia paura, Paolo procede veloce: ha già risposto al suo perché.’ Un « Bulin» ben stretto pone fine alle varie congetture, ecco il primo tirofra il quarto ed il quinto con albero,dalle dita la paura se ne va metro dopo metro con lo scorrere della corda.
Ecco lo strattone, è il mio turno per la traversata … « dai, lì c’è una manetta» sono al di là dello scaglione, forza .. si ripete l’invito: «dai che c’è la manetta » … questione d’opinioni o di mani.. io la manetta non la sento … « sorridi» è Paolo, mi traguarda dall’obbiettivo. Ho paura , tanta, ed i perché ripiombano assillanti. Tragicomica danza questa, fra l’ultimo chiodo e la presunta «manetta», fantomatica, alla fine: «Paolo blocca che arrivo! » Voglio sapere perché sono qui, la risposta è in vetta, la danza di Maurizio dà fiducia, parto rassicura/o: vi è un diedro con l’uscita alla « Dulfer”, il passaggio mi diverte, poi un tiro facile e siamo fuori, la paura scompare, mi sento primitivo semplice ed imbroglione … Perché? Ma perché mentre allacciavo le «rigide », o fra un «tiro e l’altro », ed anche nei momenti meno adatti per scattare istantanee agli amici, a risposta, la mia , mi era nota … quel sorriso che compare naturale e spontaneo « in cima », ecco lo soluzione a quel punto interrogativo, l’avete provato anche voi no?!