Il filo della storia lega persone, fatti e luoghi; da qualunque parte si inizi, se appena si presta attenzione, momenti, situazioni e tempi creano intrecci di ogni genere. E’ stato così anche per Ilario ed Emilio due dei quattro fratelli Garlini. Il tempo ha aperto per loro una pagina di storia e purtroppo anche una di tragedia. Del 45 a Bergamo si parla poco, vi sono commemorazioni , ma pochi sono quelli che effettivamente hanno sentito raccontare dal vivo come andarono le cose. Tragedie ed eroismi, immense tristezze e patimenti appaiono al giorno d’oggi come dimenticate, cose praticamente accadute ai nostri genitori, non ci appartengono più.
Per caso ero venuto a conoscenza dell’ incredibile fatto che vide protagonista Ilario , avrei voluto ascoltare la sua testimonianza…ricordare è una forma di rispetto verso il nostro passato ed un tassello del nostro presente, ma sono arrivato tardi, Ilario, a novantun anni, se ne è andato poco prima che il 2004 chiudesse il suo conto: di lui parlo brevemente con il figlio Lino, imprenditore: una testimonianza bisogna lasciarla anche sul nostro annuario: la storia partigiana è prima di tutto STORIA e per i nostri territori: storia di montagna.
La mattina del 27 aprile del 43 il gerarca Farinacci con una colonna composta da quattrocento giovani fascisti si avvicinava a Bergamo, mentre dalle montagne scendevano i partigiani: lo scontro sarebbe avvenuto in città. In Prefettura Monsignor Bernareggi cercava una soluzione affinché non avvenissero altri inutili spargimenti di sangue. Fra i presenti vi era Ilario Garlini, la passione lo aveva avvicinato alle montagne e spesso portava alimenti ai combattenti rifugiati nelle valli di Bondione. Il giorno prima era stato ferito mentre la colonna Resmini abbandonava la città. Come in un romanzo Ilario decide di incontrare Farinacci per cercare un accordo. Garlini si avvicina alla colonna in arrivo, agita un moschetto al quale è legato un asciugamano bianco, oggetti che ha sempre conservato, informa della presenza dei partigiani al Campo Marte, nei pressi di via Corridoni, un luogo che ora non esiste più. Si parlano: nessuno della colonna Farinacci avrebbe sparato a patto che i partigiani non avessero attaccato è così avvenne: in un momento nel quale le regole non esistevano più ed i fratelli sparavano ai fratelli, venne presa una decisione tanto logica quando incisiva, indelebile, la tensione era altissima ma non vi furono altre vittime inutili.
Ad Emilio invece venne rapita la vita il 7 novembre del 43 in un’azione di soccorso. Di lui si parla sul nostro notiziario, quando la sezione era denominata ” Centro Alpinistico Italiano”, penso per ottemperare alle norme in vigore a quel tempo sulle parole di origine straniera. I testi a lui dedicati sono due, a pag. 3 compare il necrologio unitamente alla notevole attività alpinistica e a pag. 39 il racconto della vicenda. Chiedo a Renato Prandi di raccontarmi del fatto del quale fu testimone, anche lui era un provetto alpinista, ma non come il Pelliccioli, sottolinea con rispetto. Lo vado a trovare in casa sua ed è con un certo stupore che trovo ben esposti ed altrettanto ben costruiti numerosi modellini dei più famosi vascelli: un alpinista che costruisce navi. Prandi era un lavoratore, oltreché alpinista, lavorava anche prima di recarsi sul posto di lavoro e per una decida d’anni lo si vide impegnato anche il sabato e la domenica, come motorista di scafi da corsa: mi fa piacere ascoltarlo, anche se il fatto riguarda purtroppo una tragedia e prima di salutarmi mi mostra il suo libro dei ricordi: nella prima pagina è incollata la foto di Emilio, la stessa che compare sul notiziario. Ciò che mi racconto lo trovo successivamente ancora sul notiziario stesso per cui penso valga la pena di riportarlo.
Il 23 ottobre del 43, Teodoro Fuerstein, suddito germanico da molti anni residente a Bergamo, partiva per un’escursione nella zona del Coca: non fece più ritorno. La mamma… rivolse molti giorni dopo un appello ad alcuni nostri soci…Malgrado l’inclemenza della stagione…Giuseppe Beni, Luigi Gazzaniga, Emilio Garlini e Renato Prandi decidevano di partire. Il 6 novembre erano al rifugio Coca, unitamente al portatore Simontencelli di Bondione. Il giorno stesso il Beni ed il Simoncelli assumevano l’esplorazione del Pizzo Coca e del Dente di Coca, mentre gli altri si dirigevano allo Scais ed al Porola. A causa della tormente un gruppo tornò mentre il Garlini ed il Prandi risalito il canalone Tua….”i segni dell’alpenstok del tedesco, sembravano portare da quella parte…. in cima ci riparammo costruendo un muretto di sassi ed infilando i piedi nello zaino, … di notte al passo della Manina si vedevano le lanterne dei minatori…” Il giorno dopo decisero di raggiungere il passo di Coca attraverso Lo Scais ed Il Porola….La bufera si scatenò nuovamente…. risalirono e discesero diversi canali sino ad imboccare la direzione giusta… “Garlini aveva perso i guanti ma ne avevo uno di scorta, per cui glielo diedi”….. arrivati nei pressi del passo e considerate ormai finite le difficoltà ci slegammo ed io andai un poco avanti… pochi attimi e lo vidi scivolare, si infilò in un anfratto fra roccia e neve… provai a trascinarlo, ma non dava segni di vita …(si ritrovarono poi i documenti del Garlini sparsi lungo questo tratto). Prandi arrivò al Coca ormai sfinito”… nel rifugio non vi era più niente, nulla da mangiare e nulla nel quale fasciare mani e piedi semi congelati….. avevo lasciato aperto alcune finestre e queste sbattendo richiamarono il Beni (risalito nuovamente il giorno successivo … Renato era mezzo assiderato ed in stato di semi incoscienza “… All’ospedale di Bergamo mi volevano tagliare le mani ma un medico italiano reduce dalla campagna di Russia, trovò il rimedio e con pazienza mi curò mi tolsero solo alcune falangi…”
Due storie ed un intreccio di situazioni, ma non ci dobbiamo soffermare solo su questi fatti, i fratelli Garlini passarono dal commercio di prodotti agricoli alla costruzione di biciclette, avviando successivamente una ditta di cromatura ed una nella quale si verniciarono anche le famose Rumi. Ilario inoltre realizzò i primi impianti sciistici di Lizzola. Fatti questi, che seppur nella tragedia e come tanti altri ci devono comunque rendere orgogliosi: lavoro, tanto; passione per la montagna, altruismo, senso dell’imprenditoria: nulla potrebbe descrivere meglio il carattere della nostra terra e di coloro che in essa vivono.